Il dibattito in corso sullo smart working e sulla necessità di “tornare a lavorare” (copyright Beppe Sala, sindaco di Milano) mi sembra un classico caso di sguardo che punta al dito, anziché alla luna indicata.
E non soltanto per l’anacronistico luddismo di chi accusa le “macchine” (nel caso di specie: computer e banda larga) di rubargli il lavoro (stavolta i “consumi”, cioè il lavoro di negozi ed esercizi pubblici che campano con lo sciamare di impiegati e simili dagli uffici in pausa pranzo). Finché il dibattito si concentra su questo, si resta in superficie.
Il diffondersi della pandemia, e l’ipotesi di epidemie future con la necessità di evitare assembramenti e in generale la compresenza di troppe persone nei luoghi pubblici, sta facendo sorgere in più d’uno il dubbio che la vita nelle grandi città porti con sé dei comportamenti poco sensati: distanze sempre più ampie da coprire per spostarsi da casa al luogo di lavoro, costi elevati, eccessivo dispendio di tempo (di fatto tempo dedicato al lavoro ma fuori orario di lavoro), difficoltà a coniugare la vita familiare con quella professionale, problemi di sostenibilità ambientale ma anche demografica di tutto questo (grandi città uguale poco tempo libero, spese ingenti, scarsa propensione a far figli per questioni di budget).
Finora, però, l’alternativa – se non della campagna tout court – dei centri di provincia, non reggeva per la scarsità, e la peggior qualità, delle opportunità lavorative. Se in provincia costa meno vivere e si vive più sereni, il contraltare erano meno impieghi e salari mediamente più bassi (il che riduceva la convenienza).
Lo smart working, a patto di avere un Paese davvero dotato di infrastrutture tecnologiche d’avanguardia, potrebbe cambiare tutto. E potenzialmente cambiarlo in meglio, spostando lavori qualificati e ben pagati lontano dai centri direzionali.
Sia chiara però una cosa: non sta accadendo nulla di nuovo, semplicemente la tecnologia sta definitivamente permettendo il compimento della transizione da una società industriale a una società post-industriale. L’urbanesimo, cioè il movimento che a partire dalla rivoluzione industriale ha via via spopolato le campagne, ha probabilmente toccato il picco in questi anni e una discesa, a questo punto, è fisiologica. E’ successo già in passato, e spesso il detonatore di una fuga dalle città furono le peggiorate condizioni igienico-sanitarie. Nel Trecento lo scoppio della Peste nera determinò un progressivo spopolamento dei centri più sviluppati (che recupereranno quei livelli di popolazione diversi secoli più tardi) e mutò anche la geografia del potere economico globale, con i Comuni italiani che nel giro di un centinaio di anni persero la centralità avuta per tutto il Basso Medioevo. Il Rinascimento non fu, in un certo senso, che il canto del cigno di una civiltà che stava per cedere il testimone.
La verità è che l’evoluzione tecnologica e il caso sanitario ci stanno spingendo lungo un nuovo tornante della storia, che verosimilmente percorreremo a velocità molto più sostenuta di quanto avvenuto in passato. Con tutto l’affetto possibile per il barista sotto l’ufficio, non è esattamente quello il problema da porsi.