Fiat, sarà una primavera calda?

Sarà che non c’è più Sergio Marchionne, sarà che la congiuntura economica internazionale sta rapidamente peggiorando, sarà – infine – che la guerra ai diesel partita dagli Stati Uniti e arrivata all’Area B di Milano non poteva non mietere vittime tra i produttori.

Una cosa è certa: la Fiat non se la passa benissimo. Le comunicazioni arrivate negli ultimi giorni e nelle ultime settimane dai vertici di Fca circa l’operatività degli stabilimenti (soprattutto italiani) sono molto più di un indizio, anche se non mancano elementi per restare ottimisti.
E’ di ieri la notizia che a marzo ci saranno nuovi stop alla produzione nello stabilimento di Melfi, quello che – primo al mondo fuori dagli Stati Uniti – produce una Jeep, la Renegade. Stessa musica a Cassino (dove si producono le Alfa Giulia e Stelvio) e a Termoli (motori) dove scatterà a più riprese la cassa integrazione. Buone notizie, invece, per Pomigliano d’Arco, dove partirà l’attesa produzione del nuovo Suv Alfa come previsto dal piano triennale d’investimenti (fino a 5 miliardi di euro) che però è sostanzialmente in stand-by a causa della valutazione in corso, da parte di Fca, dell’impatto sulle vendite del combinato ecotassa-ecobonus a partire dal 1° marzo.

Ma anche guardando all’estero la situazione, nel complesso, non è eccellente: in Serbia, a Kragujevac, dove si assemblano le 500L, ci si è fermati a inizio febbraio. A gennaio è stata la volta di Windsor (Canada), dove si sfornano le Chrysler Pacifica e i Dodge Caravan. In Polonia si teme per la tenuta dello stabilimento di Bielsko-Biala. La produzione è a singhiozzo, e il motivo addotto dai vertici del gruppo è sempre lo stesso: domanda debole.

Va però rilevato che persiste un’eccezione, e anche questa è sintomatica. I problemi ci sono, ma sono tutti fuori dai confini statunitensi. Sia chiaro: il rallentamento economico globale e i ritardi nello studio di una strategia alternativa al gasolio (che la malattia e la scomparsa di Marchionne hanno di sicuro aggravato) sono temi reali, ma il dubbio che il nuovo corso di Mike Manley stia ancor più spostando il baricentro del gruppo in America (anche in nome dell’appeasement con Donald Trump) è quantomeno legittimo. Negli stabilimenti del Michigan saranno investiti – è l’ultimissimo annuncio – circa 4,5 miliardi di dollari e assunti 6.500 lavoratori per la produzione di nuovi modelli a marchio Jeep e Ram, quelli che in buona sostanza funzionano sul mercato, mentre il brand Fiat fatica sempre di più, come i dati sugli stabilimenti periferici italiani stanno lì a dimostrare.

Nelle prossime ore si avrà, probabilmente, un quadro più chiaro: i rappresentanti di Fiat-Chrysler saranno ascoltati dalla Commissione Lavoro della Camera, chiamata a confrontarsi sulle iniziative per la salvaguardia occupazionale proprio nell’industria automobilistica nostrana. La sensazione, in fondo, è che il problema, al di là delle incertezze del settore, sia proprio italiano.
Anche per questo non mancano tensioni. Sullo sfondo c’è la rottura sul contratto, che Fca – non facendo parte ormai da anni di Confindustria – negozia senza limiti di sorta. La numero uno di Fiom, Francesca Re David (nella foto), ha abbandonato il tavolo delle trattative (in linea con quanto fece anni fa l’attuale segretario generale Cgil, Maurizio Landini), perché le distanze su relazioni sindacali e struttura stessa del salario sarebbero “troppo rilevanti”, considerate anche le prospettive di impiego del personale nei vari stabilimenti. Nelle prossime giornate saranno convocate le assemblee di fabbrica. E molto lascia intendere che – per l’italiana Fiat – sarà una primavera calda.

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