America First funziona. Per ora

I dati sull’occupazione negli Stati Uniti, con i nuovi occupati cresciuti a ottobre di 250 mila unità la quota di senza lavoro scesa al 3,7% (praticamente nessuno, dato che ai corsi di macroeconomia uno dei primi concetti a essere spiegati è quello di disoccupazione frizionale, cioè sostanzialmente inevitabile per effetto della mobilità e vitalità sociale, e il dato di riferimento è 3%) rappresentano probabilmente il fattore più importante cui guardare per cercare di leggere, con un qualche anticipo, l’esito delle imminenti elezioni di midterm.

Soprattutto, è utile guardare allo schema preparato dall’Ispi (qui sopra): crescita media del 2,6% annuo, 4 milioni di nuovi posti di lavoro in appena due anni di mandato, +18% a Wall Street, anche al netto degli ultimi scossoni, peraltro già assorbiti guardando ai numeri da inizio 2018.

Parlare di economia che viaggia a gonfie vele, a fronte di questi numeri, sembrerebbe perfino riduttivo. In Europa, per gli stessi risultati, un qualunque governo sarebbe portato d’esempio a tutti gli altri partner dell’Unione. Su Trump insistono, ed è in parte comprensibile, tutta una serie di pregiudizi del mondo dei media e della politica dovuti solo in parte alle sue politiche, e molto più alle sue esternazioni, spesso troppo sopra le righe per il leader del mondo libero. Ma gli stessi numeri dicono anche che l’Amministrazione Trump è in realtà meno “trumpiana” di quanto sembri, come suggerisce anche il libro del giornalista Stefano Graziosi, “Apocalypse Trump: un presidente americano tra Mao e Andreotti”: gli arresti di migranti al confine messicano, rispetto all’era Obama, si sono ridotti del 15%, del famoso “muro” sono stati realizzati finora appena 4 chilometri (e già in passato ne erano stati costruiti alcuni tratti, anche da presidenti democratici) e le truppe americane in giro per il mondo si sono ridotte di numero.

A noi interessano però soltanto i numeri e l’economia, e a quelli al momento c’è poco da opporre, come sottolineano gli ultimi sondaggi tra i Ceo americani. Al termine della presidenza Obama le previsioni di un rallentamento per l’economia statunitense erano pressoché generalizzate. Ora sono smentite dai fatti. Anzi, gli Stati Uniti continuano a crescere più del resto dell’Occidente, dove anzi si registrano i primi preoccupanti segnali di frenata, sia per l’Eurozona sia per il Regno Unito post Brexit. Certo, non tutto il merito può essere ascritto a Donald Trump: ci sono fattori strutturali dell’economia statunitense ad aver contribuito a questa performance, per esempio la crescita del ruolo americano nella produzione di idrocarburi. Certo, bisognerà valutare l’eventuale impatto di una possibile (ma non troppo probabile) definitiva stretta commerciale americana, ma anche lì al di là delle schermaglie la pace tra Washington e Pechino è possibile, e poggerà su una visione comune su come suddividere le sfere d’influenza di ciascuno a livello globale. I dazi sono solo la versione moderna dei missili della Guerra Fredda.

A ben vedere, per Trump le vere incognite sono tre: la prima è la Federal Reserve, la seconda – di più lungo periodo – sono i conti pubblici, la terza è paradossalmente proprio lo splendido (?) isolamento americano. Se il numero uno della banca centrale statunitense, Jerome Powell, perseverasse nell’obiettivo di alzare i tassi d’interesse di un punto percentuale entro la fine del 2019 per frenare l’inflazione, questo sì potrebbe azzoppare la corsa della Trumpnomics, perché il denaro più caro stringerebbe i cordoni del credito a famiglie e imprese. Per questo l’inquilino della Casa Bianca, di recente, è sempre così arrabbiato con il capo della Fed. Ma se in politica monetaria Trump potrebbe – come spesso fa – individuare un nuovo nemico esterno da incolpare, sulla crescita della spesa pubblica non potrebbe che biasimare se stesso, visto che l’incremento della spesa militare sta rapidamente vanificando qualsiasi tentativo di spending review. Infine l’isolamento: crescere (e parecchio) mentre gli altri arrancano può sembrare a prima vista un bene. Serve, in realtà, soltanto a gonfiare il petto per un po’. Fino a quando, cioè, ti rendi conto che in un mondo sempre più interconnesso, puoi anche puntare sulla ripresa del mercato interno, ma non puoi in nessun modo pensare di fare a meno degli altri o di innescare addirittura una guerra valutaria, se non altro perché per continuare a crescere a questi ritmi (o, perché no?) anche di più, serve una platea di consumatori più ampia dei 300 milioni di cittadini statunitensi. E quindi per adesso è America First, senza dubbio. Ma perché rimanga tale, Trump deve continuare a stupirci essendo meno “trumpiano” di quanto potremmo aspettarci.

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