Figuraccia universale

Difficile trovare precedenti che possano pareggiare la débacle della candidatura di Roma a ospitare l’Esposizione Universale del 2030. Nel confronto con le altre due città in lizza, la capitale saudita Riad (119 voti) e la sudcoreana Busan (29), la Città Eterna ha raccolto la miseria di 17 preferenze.

 


Courtesy CRA Carlo Ratti Associati for Expo 2030 Roma

 

Al di là delle reazioni al limite dell’ingenuità del dopo voto (dal sindaco Gualtieri che parla di “sconfitta che fa male” all’ambasciatore Massolo per il quale “qualcosa non torna” nel plebiscito per i sauditi), sono le cifre dell’affare sfumato a rendere la misura dell’occasione perduta per ridare smalto a una capitale afflitta da problemi e disservizi da almeno un quindicennio. Nei mesi scorsi erano stati gli stessi promotori della candidatura a chiarire come una eventuale aggiudicazione dell’Expo avrebbe portato in dote a Roma un impatto economico complessivo da 50,6 miliardi di euro, accompagnato dalla nascita di 11.000 nuove imprese e dalla creazione di circa 300.000 posti di lavoro. Resta invece, soprattutto, l’imbarazzo per aver mancato un altro appuntamento con la storia, dopo il no dell’ex sindaca Virginia Raggi a ospitare le Olimpiadi del 2024, viste dalla allora prima cittadina dei 5 Stelle solo come un’occasione di ingrassare il malaffare e qualche palazzinaro.

 

Il logo dei Giochi di Parigi 2024 sull’Arco di Trionfo

 

Sappiamo com’è andata: quella rinuncia ha spianato la strada a Parigi, che la prossima estate ospiterà i Giochi, mentre Roma proverà nei prossimi dodici mesi a colmare l’enorme gap infrastrutturale e organizzativo che la affligge per presentarsi decorosamente all’appuntamento con il Giubileo del 2025. Appuntamento che rischia peraltro di rimanere l’ultimo grande evento – dovuto esclusivamente alla presenza bimillenaria nell’Urbe della Sede apostolica, non certo all’acume politico o alle capacità organizzative delle autorità italiane – nel futuro prossimo della città. Il perché è presto detto: aver perseverato nella sfida all’Arabia Saudita per l’Esposizione del 2030 ha per forza di cose portato alla nascita di alleanze tra Riad e le altre – moltissime – capitali che l’hanno appoggiata. E’ presumibile che i sauditi ormai fuori dai giochi al prossimo giro garantiranno a una di quelle nazioni l’appoggio per ospitare l’Expo successivo. Ritirare al momento giusto la candidatura di Roma, una volta verificatane l’inconsistenza in termini di consenso a livello internazionale, avrebbe invece portato alla capitale italiana una ovvia riconoscenza da parte di Riad facilmente trasformabile in un’alleanza per ipotecare l’edizione 2035.

 

L’ex sindaco di Milano, Letizia Moratti

 

Questione di diplomazia. In un’intervista al quotidiano Il Riformista, Letizia Moratti ovvero il sindaco che portò a Milano Expo 2015, ha spiegato di essere stata interpellata dai promotori di Roma 2030 e di aver illustrato loro quali sarebbero stati i passi da fare per assicurarsi l’assegnazione, o quantomeno per non fare una pessima figura anche a fronte dello strapotere dei petrodollari di Riad. Letteralmente: «Visitare tutti i Paesi. Proporre dei progetti e non solo chiedere voti. E avere una governance molto forte, con una catena di comando molto corta. E molto chiara». Tutto qui. Ricordo perfettamente quando l’allora prima cittadina di Milano si recò in visita a Toronto (in quegli anni vivevo in Canada) per convincere il sindaco David Miller a non farsi tentare da una candidatura e anzi a sostenere lo sforzo della metropoli italiana nel confronto con Smirne, città simbolo di una Turchia in quella fase sulla cresta dell’onda. Un copione ben recitato più volte fino al voto finale del marzo 2008, che vide prevalere gli italiani con un punteggio di 86 a 65. Un voto che pose le basi non soltanto di un evento ben riuscito e di larga eco, ma che si rivelò la molla determinante per lo sviluppo e la crescita economica ed urbanistica dell’unica città moderna ed autenticamente europea del nostro Paese. Quello che manca a Roma e che, assai probabilmente, continuerà a mancare ancora a lungo.

Lavoro smart, fine dell’età industriale?

Charlie Chaplin in una foto di scena del film ‘Tempi Moderni’. ANSA – RED

Il dibattito in corso sullo smart working e sulla necessità di “tornare a lavorare” (copyright Beppe Sala, sindaco di Milano) mi sembra un classico caso di sguardo che punta al dito, anziché alla luna indicata.
E non soltanto per l’anacronistico luddismo di chi accusa le “macchine” (nel caso di specie: computer e banda larga) di rubargli il lavoro (stavolta i “consumi”, cioè il lavoro di negozi ed esercizi pubblici che campano con lo sciamare di impiegati e simili dagli uffici in pausa pranzo). Finché il dibattito si concentra su questo, si resta in superficie.

Il diffondersi della pandemia, e l’ipotesi di epidemie future con la necessità di evitare assembramenti e in generale la compresenza di troppe persone nei luoghi pubblici, sta facendo sorgere in più d’uno il dubbio che la vita nelle grandi città porti con sé dei comportamenti poco sensati: distanze sempre più ampie da coprire per spostarsi da casa al luogo di lavoro, costi elevati, eccessivo dispendio di tempo (di fatto tempo dedicato al lavoro ma fuori orario di lavoro), difficoltà a coniugare la vita familiare con quella professionale, problemi di sostenibilità ambientale ma anche demografica di tutto questo (grandi città uguale poco tempo libero, spese ingenti, scarsa propensione a far figli per questioni di budget).

Finora, però, l’alternativa – se non della campagna tout court – dei centri di provincia, non reggeva per la scarsità, e la peggior qualità, delle opportunità lavorative. Se in provincia costa meno vivere e si vive più sereni, il contraltare erano meno impieghi e salari mediamente più bassi (il che riduceva la convenienza).
Lo smart working, a patto di avere un Paese davvero dotato di infrastrutture tecnologiche d’avanguardia, potrebbe cambiare tutto. E potenzialmente cambiarlo in meglio, spostando lavori qualificati e ben pagati lontano dai centri direzionali.

Sia chiara però una cosa: non sta accadendo nulla di nuovo, semplicemente la tecnologia sta definitivamente permettendo il compimento della transizione da una società industriale a una società post-industriale. L’urbanesimo, cioè il movimento che a partire dalla rivoluzione industriale ha via via spopolato le campagne, ha probabilmente toccato il picco in questi anni e una discesa, a questo punto, è fisiologica. E’ successo già in passato, e spesso il detonatore di una fuga dalle città furono le peggiorate condizioni igienico-sanitarie. Nel Trecento lo scoppio della Peste nera determinò un progressivo spopolamento dei centri più sviluppati (che recupereranno quei livelli di popolazione diversi secoli più tardi) e mutò anche la geografia del potere economico globale, con i Comuni italiani che nel giro di un centinaio di anni persero la centralità avuta per tutto il Basso Medioevo. Il Rinascimento non fu, in un certo senso, che il canto del cigno di una civiltà che stava per cedere il testimone.

La verità è che l’evoluzione tecnologica e il caso sanitario ci stanno spingendo lungo un nuovo tornante della storia, che verosimilmente percorreremo a velocità molto più sostenuta di quanto avvenuto in passato. Con tutto l’affetto possibile per il barista sotto l’ufficio, non è esattamente quello il problema da porsi.

Fiat, sarà una primavera calda?

Sarà che non c’è più Sergio Marchionne, sarà che la congiuntura economica internazionale sta rapidamente peggiorando, sarà – infine – che la guerra ai diesel partita dagli Stati Uniti e arrivata all’Area B di Milano non poteva non mietere vittime tra i produttori.

Una cosa è certa: la Fiat non se la passa benissimo. Le comunicazioni arrivate negli ultimi giorni e nelle ultime settimane dai vertici di Fca circa l’operatività degli stabilimenti (soprattutto italiani) sono molto più di un indizio, anche se non mancano elementi per restare ottimisti.
E’ di ieri la notizia che a marzo ci saranno nuovi stop alla produzione nello stabilimento di Melfi, quello che – primo al mondo fuori dagli Stati Uniti – produce una Jeep, la Renegade. Stessa musica a Cassino (dove si producono le Alfa Giulia e Stelvio) e a Termoli (motori) dove scatterà a più riprese la cassa integrazione. Buone notizie, invece, per Pomigliano d’Arco, dove partirà l’attesa produzione del nuovo Suv Alfa come previsto dal piano triennale d’investimenti (fino a 5 miliardi di euro) che però è sostanzialmente in stand-by a causa della valutazione in corso, da parte di Fca, dell’impatto sulle vendite del combinato ecotassa-ecobonus a partire dal 1° marzo.

Ma anche guardando all’estero la situazione, nel complesso, non è eccellente: in Serbia, a Kragujevac, dove si assemblano le 500L, ci si è fermati a inizio febbraio. A gennaio è stata la volta di Windsor (Canada), dove si sfornano le Chrysler Pacifica e i Dodge Caravan. In Polonia si teme per la tenuta dello stabilimento di Bielsko-Biala. La produzione è a singhiozzo, e il motivo addotto dai vertici del gruppo è sempre lo stesso: domanda debole.

Va però rilevato che persiste un’eccezione, e anche questa è sintomatica. I problemi ci sono, ma sono tutti fuori dai confini statunitensi. Sia chiaro: il rallentamento economico globale e i ritardi nello studio di una strategia alternativa al gasolio (che la malattia e la scomparsa di Marchionne hanno di sicuro aggravato) sono temi reali, ma il dubbio che il nuovo corso di Mike Manley stia ancor più spostando il baricentro del gruppo in America (anche in nome dell’appeasement con Donald Trump) è quantomeno legittimo. Negli stabilimenti del Michigan saranno investiti – è l’ultimissimo annuncio – circa 4,5 miliardi di dollari e assunti 6.500 lavoratori per la produzione di nuovi modelli a marchio Jeep e Ram, quelli che in buona sostanza funzionano sul mercato, mentre il brand Fiat fatica sempre di più, come i dati sugli stabilimenti periferici italiani stanno lì a dimostrare.

Nelle prossime ore si avrà, probabilmente, un quadro più chiaro: i rappresentanti di Fiat-Chrysler saranno ascoltati dalla Commissione Lavoro della Camera, chiamata a confrontarsi sulle iniziative per la salvaguardia occupazionale proprio nell’industria automobilistica nostrana. La sensazione, in fondo, è che il problema, al di là delle incertezze del settore, sia proprio italiano.
Anche per questo non mancano tensioni. Sullo sfondo c’è la rottura sul contratto, che Fca – non facendo parte ormai da anni di Confindustria – negozia senza limiti di sorta. La numero uno di Fiom, Francesca Re David (nella foto), ha abbandonato il tavolo delle trattative (in linea con quanto fece anni fa l’attuale segretario generale Cgil, Maurizio Landini), perché le distanze su relazioni sindacali e struttura stessa del salario sarebbero “troppo rilevanti”, considerate anche le prospettive di impiego del personale nei vari stabilimenti. Nelle prossime giornate saranno convocate le assemblee di fabbrica. E molto lascia intendere che – per l’italiana Fiat – sarà una primavera calda.

America First funziona. Per ora

I dati sull’occupazione negli Stati Uniti, con i nuovi occupati cresciuti a ottobre di 250 mila unità la quota di senza lavoro scesa al 3,7% (praticamente nessuno, dato che ai corsi di macroeconomia uno dei primi concetti a essere spiegati è quello di disoccupazione frizionale, cioè sostanzialmente inevitabile per effetto della mobilità e vitalità sociale, e il dato di riferimento è 3%) rappresentano probabilmente il fattore più importante cui guardare per cercare di leggere, con un qualche anticipo, l’esito delle imminenti elezioni di midterm.

Soprattutto, è utile guardare allo schema preparato dall’Ispi (qui sopra): crescita media del 2,6% annuo, 4 milioni di nuovi posti di lavoro in appena due anni di mandato, +18% a Wall Street, anche al netto degli ultimi scossoni, peraltro già assorbiti guardando ai numeri da inizio 2018.

Parlare di economia che viaggia a gonfie vele, a fronte di questi numeri, sembrerebbe perfino riduttivo. In Europa, per gli stessi risultati, un qualunque governo sarebbe portato d’esempio a tutti gli altri partner dell’Unione. Su Trump insistono, ed è in parte comprensibile, tutta una serie di pregiudizi del mondo dei media e della politica dovuti solo in parte alle sue politiche, e molto più alle sue esternazioni, spesso troppo sopra le righe per il leader del mondo libero. Ma gli stessi numeri dicono anche che l’Amministrazione Trump è in realtà meno “trumpiana” di quanto sembri, come suggerisce anche il libro del giornalista Stefano Graziosi, “Apocalypse Trump: un presidente americano tra Mao e Andreotti”: gli arresti di migranti al confine messicano, rispetto all’era Obama, si sono ridotti del 15%, del famoso “muro” sono stati realizzati finora appena 4 chilometri (e già in passato ne erano stati costruiti alcuni tratti, anche da presidenti democratici) e le truppe americane in giro per il mondo si sono ridotte di numero.

A noi interessano però soltanto i numeri e l’economia, e a quelli al momento c’è poco da opporre, come sottolineano gli ultimi sondaggi tra i Ceo americani. Al termine della presidenza Obama le previsioni di un rallentamento per l’economia statunitense erano pressoché generalizzate. Ora sono smentite dai fatti. Anzi, gli Stati Uniti continuano a crescere più del resto dell’Occidente, dove anzi si registrano i primi preoccupanti segnali di frenata, sia per l’Eurozona sia per il Regno Unito post Brexit. Certo, non tutto il merito può essere ascritto a Donald Trump: ci sono fattori strutturali dell’economia statunitense ad aver contribuito a questa performance, per esempio la crescita del ruolo americano nella produzione di idrocarburi. Certo, bisognerà valutare l’eventuale impatto di una possibile (ma non troppo probabile) definitiva stretta commerciale americana, ma anche lì al di là delle schermaglie la pace tra Washington e Pechino è possibile, e poggerà su una visione comune su come suddividere le sfere d’influenza di ciascuno a livello globale. I dazi sono solo la versione moderna dei missili della Guerra Fredda.

A ben vedere, per Trump le vere incognite sono tre: la prima è la Federal Reserve, la seconda – di più lungo periodo – sono i conti pubblici, la terza è paradossalmente proprio lo splendido (?) isolamento americano. Se il numero uno della banca centrale statunitense, Jerome Powell, perseverasse nell’obiettivo di alzare i tassi d’interesse di un punto percentuale entro la fine del 2019 per frenare l’inflazione, questo sì potrebbe azzoppare la corsa della Trumpnomics, perché il denaro più caro stringerebbe i cordoni del credito a famiglie e imprese. Per questo l’inquilino della Casa Bianca, di recente, è sempre così arrabbiato con il capo della Fed. Ma se in politica monetaria Trump potrebbe – come spesso fa – individuare un nuovo nemico esterno da incolpare, sulla crescita della spesa pubblica non potrebbe che biasimare se stesso, visto che l’incremento della spesa militare sta rapidamente vanificando qualsiasi tentativo di spending review. Infine l’isolamento: crescere (e parecchio) mentre gli altri arrancano può sembrare a prima vista un bene. Serve, in realtà, soltanto a gonfiare il petto per un po’. Fino a quando, cioè, ti rendi conto che in un mondo sempre più interconnesso, puoi anche puntare sulla ripresa del mercato interno, ma non puoi in nessun modo pensare di fare a meno degli altri o di innescare addirittura una guerra valutaria, se non altro perché per continuare a crescere a questi ritmi (o, perché no?) anche di più, serve una platea di consumatori più ampia dei 300 milioni di cittadini statunitensi. E quindi per adesso è America First, senza dubbio. Ma perché rimanga tale, Trump deve continuare a stupirci essendo meno “trumpiano” di quanto potremmo aspettarci.

Sindrome giapponese

Il via libera al Documento programmatico di bilancio, che il governo italiano ha trasmesso alla Commissione europea e che prevede lo sforamento del rapporto deficit-Pil al 2,4%, e la notizia contestuale che arriva dagli Stati Uniti, dove il deficit nel 2018 ha raggiunto quota 779 miliardi di dollari (pari al 3,9% in rapporto con il Pil), sono due fatti che aprono la strada a una nuova riflessione sul ruolo pubblico in economia.

Passata la sbornia degli anni Novanta e Duemila, quando persino gli ex dirigenti comunisti a un certo punto cominciarono a dirsi liberali, negli ultimi anni la tendenza della politica si è nettamente invertita. La crisi, nata negli Stati Uniti un decennio fa e mutata più volte coinvolgendo soprattutto l’Europa, ha indotto molti a ripensare le loro posizioni sulla infallibilità del mercato e sul ruolo di mero arbitro da riservare allo Stato. Il disagio economico di fasce crescenti della popolazione nei Paesi sviluppati, e la conseguente crescita di consenso delle forze politiche che sul fuoco di quel disagio hanno soffiato, ha portato molti ex sedicenti liberisti a diventare o tornare rapidamente statalisti.

Basta appunto guardare ai bilanci degli Stati (vedi grafico sopra) per capire quanto la spesa pubblica stia aumentando, soprattutto per adottare misure antieconomiche sul piano della disciplina di bilancio, ma redditizie su quello del consenso. E’ successo negli Stati Uniti, dove a un modesto incremento del gettito fiscale portato dalla riforma Trump (contrariamente a quanto predetto dai detrattori della Casa Bianca, grazie anche a una crescita economica robusta) è però corrisposto un aumento della spesa sociale, tra quella riservata al programma Medicaid e quella di stretta social security. Trump conta di risalire la china degli equilibri di bilancio imponendo tariffe più elevate sulle merci straniere, ma queste rischieranno di minare la crescita dell’economia statunitense. Insomma, si corre il pericolo di incassare con la mano destra per poi spendere altrettanto con la sinistra. Anche perché ad appesantire il conto per le casse americane c’è anche il rincaro, ai massimi dagli ultimi sette anni, dei tassi di rendimento dei Treasury, i titoli di Stato statunitensi.

Un po’ quello che sta avvenendo anche da noi, dove l’effetto spread sta portando a ipotecare le risorse che con difficoltà il ministro Giovanni Tria sta reperendo nelle pieghe del bilancio pubblico per tenere in piedi le promesse elettorali fatte (separatamente, e non è un dettaglio) da Lega e Movimento 5 Stelle. L’Italia si sta finanziando sul mercato a condizioni meno vantaggiose rispetto a un semestre fa, perché il rendimento dei nostri Btp a 10 anni, per citare i titoli di riferimento, da maggio a oggi è letteralmente raddoppiato. Significa che ottenere prestiti per le spese dello Stato costerà di più, e che quindi una parte dei soldi che già si conta di spendere in deficit per finanziare la Quota 100 per le pensioni o il reddito di cittadinanza potrebbe finire in maggiori interessi da riconoscere ai creditori, internazionali e non (tra cui banche e risparmiatori italiani). Una cosa è certa: il governo giallo-verde, come Trump negli Stati Uniti ma come anche molti altri esecutivi in giro per il mondo, sembra credere inequivocabilmente al potere taumaturgico della spesa pubblica. Se lo Stato immette soldi nella società, è il retropensiero, questi torneranno indietro in maggiori consumi e maggiore gettito fiscale.

Il punto è che mentre chi osserva i mercati comincia a temere un’imminente raffica di vendite innescate da una serie di concause (la policy monetaria della Federal Reserve, che sconta il rialzo dei tassi di un punto entro il 2019; le tensioni commerciali tra Stati Uniti, Cina e resto del mondo; lo stallo sulla Brexit; il caso Italia vs. Ue) che in buona parte possono essere ricondotte a una crescita incontrollata dei debiti pubblici al di qua e al di là dell’Atlantico, chi è alla guida di questi stessi Paesi continua a citare il Giappone.

“Let’s be like Japan”, comincia a dire qualche guru in America, sostenendo che come Tokyo sopporta bene un rapporto debito-pil al 236%, così possono fare gli Stati Uniti, senza problemi di rifinanziamento. E al modello nipponico hanno fatto riferimento, nelle scorse settimane, anche i cantori del sovranismo economico italiano, citando il caso del debito giapponese saldamente in mano ai risparmiatori locali, e non alla “speculazione” (?) internazionale.

La realtà è che il Giappone ha lavorato a lungo alla nazionalizzazione del proprio debito pubblico, a differenza di quasi tutto il resto del mondo. Stati Uniti e Italia vedono invece ampie fette del loro debito in mani straniere, con la quota in possesso dei risparmiatori italiani scesa da oltre il 50 al 6% in un trentennio. Ci sono gli Stati esteri, a detenere i nostri Btp, ma anche i grandi fondi, pensionistici e d’investimento. Nel caso americano, ci sono tradizionalmente ormai i cinesi, ma anche i sauditi, che anzi negli ultimi 4-5 anni hanno compensato con maggiori acquisti il parziale disimpegno di altri Paesi sui T-Bond (come mostra il grafico qui sotto).

Peccato che ora, con il caso Khashoggi, Washington rischi la ritorsione di Riad, molto più che sul petrolio, proprio sugli acquisti di titoli di Stato. E che l’Italia potrebbe non aver tempo di cambiare il proprio portafoglio di clienti, con la Commissione Ue e soprattutto le agenzie di rating che minacciano di bocciare la manovra, e quindi la fiducia nella solvibilità del nostro debito sovrano, entro la fine di ottobre. E quando a prestarti il denaro non sono i tuoi cittadini, è solo questione di fiducia.
Il rischio, stando così le cose, è che la stagione del ritorno statalista possa avere i giorni (e i soldi) contati, semplicemente perché – parafrasando Pascal – il consenso ha le sue ragioni, che la matematica non conosce.